Ellenica - Porto Mandraki

Ellenica, un brano o un flashback

Dopo 3 anni di scrittura, Ellenica ha visto la luce. Un libro iniziato in pandemia e pubblicato a settembre 2022. Sul blog dedicherò qualche post (ma non troppi, giuro) per chi volesse saperne di più. Questo è un brano tratto da uno dei capitoli dedicato ai ricordi, a una Grecia lontana ma non troppo. Per chi volesse continuare la lettura lascio il link di Amazon.

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Era difficile per un bambino mettere insieme i pezzi della storia dell’isola come della sua stessa vita. Mezzo turco e mezzo greco, risentiva anche lui di entrambe le influenze proprio come la stessa Rodi. La terra parlava linguaggi sconosciuti che a volte sembravano capirsi, altre volte erano in lotta tra loro.

La città vecchia sembrava ricordare più Istanbul che non Atene ma le acropoli e i templi sparsi sulle scogliere che dall’alto osservavano il mare respiravano di Grecia.
E Sebastianos non perdeva occasione per ricordarglielo. 

Amava portare la famiglia a visitare quei monumenti a cielo aperto raccontando le storie del magnifico popolo accanto per cui aveva una venerazione immensa e di cui aveva imparato a memoria tradizioni e leggende, appartenendogli come un fedele e devoto figlio adottivo, senza mai dimenticare la terra che gli aveva dato i natali. Non a caso nel primo cassetto dell’armadio nella camera da letto custodiva i suoi due passaporti vicini: si sentiva un uomo di mondo senza confini e si augurava che anche i suoi figli potessero come lui assaporare il mondo in tutta la sua pienezza.

Bartolomeo ascoltava incantato le parole del papà e i suoi racconti fatti di arte e di magia. Aveva imparato il valore della famiglia, un senso di appartenenza: sapere qual è la propria strada di casa e anche se le radici erano confuse si sentiva al sicuro nel presente. 

Adesso che Sebastianos non gli raccontava quelle storie da un anno, cercava di ricordarsi quelle imprese valorose da solo perché nonostante quell’assenza, il mondo era andato avanti lo stesso, come sempre. Gli uomini del mercato con le loro mani levigate dal sole intenti a chiacchierare tra loro, le donne con fazzoletti in testa sedute su sedie di vimini fuori dalle porte di casa, artigiane che armeggiavano con i loro uncinetti e ricami su tessuti bianchi come la neve che non è mai scesa sull’isola. O intessevano cestini di vimini color oro che impreziosivano gli usci delle loro case bianche e celesti.

Il mercato ha continuato ogni giorno ad animare le sinuose vie della città nuova con pomodori, fichi, cipolle, fagiolini e meloni gialli: un mare di colori. Il mondo andava avanti ma i volti delle persone sembravano persi nell’attesa.
Proprio come lui, come quella mattina di fine agosto quando, osservando i tre mulini e il blu del mare, si era ricordato la leggenda più affascinante di tutte: il Colosso di Rodi.
La statua dedicata al dio Elio, protettore della città, era maestosa e preziosa. I cittadini l’avevano costruita con orgoglio e amavano ammirarla per la sua imponenza: era considerata una delle Sette Meraviglie del Mondo. La bellezza riempie il cuore ma purtroppo non tutti sono in grado di capirlo e né la sua grazia né la sua fama l’avevano salvata dalla distruzione.

Era crollata per poi finire miseramente saccheggiata dagli Arabi: una parte dei frammenti era sicuramente ancora lì, in quel manto blu increspato dalle onde sempre agitate dell’Egeo. 

E Bartolino quando andava nella zona del porto a fare il bagno, si immergeva con tutta la testa e apriva gli occhi sott’acqua, per cercare i resti della statua che probabilmente adesso, con la sua magnificenza, proteggeva il mondo sottomarino.

Riemergeva sempre a mani vuote o al massimo portava con sé delle preziose conchiglie colorate. Si riavvicinava all’ombrellone di famiglia e sistemava  il suo tesoro sulla sabbia. A volte litigava con Marco che glielo voleva rubare e Irene doveva intervenire per suggerire di regalare qualche conchiglia anche al fratellino più piccolo. Con accondiscendenza finiva per dividerle con Marco e Ciril.

Poi quando il vento iniziava a soffiare più forte si sedeva vicino alla riva, con i piedi bagnati ritmicamente dall’acqua. Nel giro di pochi minuti tutto il mondo diventava rosso mentre il sole dava il suo ultimo saluto a quei piccoli esseri sulla terraferma. Tramontava proprio lì, al centro del mare che divideva Grecia e Turchia. 

Nonostante il rumore violento delle onde Bartolomeo riusciva a sentire una sensazione di pace e calore dentro. Avrebbe rivisto quel tramonto spesso nel corso della sua vita ma soltanto nei suoi sogni.

Tutto sarebbe stato diverso se non ci fosse stato quel giorno di settembre del 1943. 

Un mare di esseri viventi animava il porto nell’afoso pomeriggio tardo-estivo. Bartolomeo  si godeva gli ultimi giorni di vacanza girovagando tra le mura medievali con i fratelli più piccoli. In silenzio scrutava i volti che gli passavano davanti. Non se ne rendeva conto consciamente ma si era abituato a vedere fusi tra loro occhi verdi e marroni, pelli chiarissime, scottate dal sole e orientali. Fuori da qualche osteria anziani con il viso segnato da mare, sole e storia bevevano i loro bicchieri di ouzo discutendo a voce alta. 

Nella piazza principale c’erano anche i militari italiani, con le loro divise perfette, il berretto e i baffetti. Usavano acque di colonia che avevano il sapore di un’altra terra. Bartolo si era abituato alla loro presenza e li salutava da lontano con la mano quando passava in zona. A volte si avvicinava e loro gli parlavano lentamente: ciao o come stai? Sorrideva e anche lui si lanciava in qualche timida chiacchiera sul sole e la pioggia, utilizzando quelle parole di italiano che aveva studiato sui banchi di scuola. 

Divertiti, i soldati avevano imparato a conoscerlo. Lui come gli altri bambini del quartiere, Manolis il proprietario del forno di fronte, la signora Rosita, siciliana sposata con il fruttivendolo che portava loro della frutta fresca di stagione dai colori più accesi rispetto a quelli della madrepatria. Un ricordo sfocato e doloroso per dei ragazzi così giovani.

Bartolomeo li osservava con rispetto. Quei militari somigliavano tanto ai soldatini con cui amava giocare in casa anche se sapeva che quel carro armato che li accompagnava e su cui sognava di salire era più vero che mai. Lì, immobile e pronto a sparare se necessario.

Quell’8 settembre notò subito che il veicolo verde e massiccio era in una posizione diversa dal solito: puntava verso l’arco principale, esattamente in direzione del porto.
I tre fratelli camminavano verso il fornaio e nel frattempo discutevano su qualche dispetto che potevano organizzare. Sapevano che dovevano essere attenti a non farsi scoprire perché Irene non avrebbe perdonato un altro guaio. I loro ragionamenti, che stavano per condurli da Manolis, furono interrotti da una voce possente alle loro spalle.

“Dove stanno andando i miei ometti preferiti?” chiese un uomo alto e robusto  dai capelli biondi, sorridendo e posando la mano sulla spalla di Marco. Accanto al gigante, una bambina dai tratti delicati si nascondeva timidamente dietro le sue gambe.

Zio Kosmas, sposato con la zia Adua, era uno degli uomini più in vista della città: di sangue nobile e proprietario della banca più antica di Rodi, meditava di entrare in politica a breve, aspettava solo la fine della Guerra. L’isola era la sua vita. Non l’aveva mai lasciata e quando gli chiedevano come mai non avesse curiosità di vedere il mondo oltre il mare, nonostante i fondi per i viaggi verso il Continente non gli mancassero, rispondeva con espressione serena: dove dovrei andare quando sono già in Paradiso?

A completare l’idillio c’era l’amore per Adua. Dal loro matrimonio felice era nata una sola figlia, la piccola Mary. Una sola erede era una cosa insolita e in contrasto con la numerosità di prole delle famiglie greche, che di solito dovevano affittare quasi un’intera osteria per i pranzi o le cene fuori casa. Erano sempre momenti ricchi di allegria e convivialità.
Kosmas, Adua e Mary non avevano bisogno di altri figli o fratelli per avere una casa piena di risate, gioia e amore. Irene, sorella di Kosmas, Sebastianos e i tre monelli erano quasi sempre ospiti da loro per il pranzo della domenica o per la mezedakia, quando condividevano olive, formaggi, patate, tzatziki e pita con un bicchiere di retsina delle sue vigne appena fuori città. Si sedevano in giardino e ridevano fino a tardi. A volte Papouli e Γιαγιά, i nonni, scendevano dalla casa in cui si erano ritirati sulle alture del Lindo. Un bel po’ di strada per salutare i nipotini. 

Sebastianos allora prendeva in mano la chitarra e lasciava che i suoceri cantassero le loro canzoni greche, talvolta allegre talvolta malinconiche, con voce triste o disperata ma mai rassegnata: c’era troppo vita che scorreva in quelle vene. Erano una famiglia chiassosa anche loro quando si divertivano e per questo erano felici.

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