Andava spesso il pomeriggio alle cinque al bar sul mare. Aveva cura nel vestire elegante quanta ne aveva che la sua eleganza fosse nera. Come la folta chioma che incorniciava gli occhi sbarrati, sgranati e di una grandezza smisurata. Con compostezza si sistemava, prediligendo i tavolini al centro del locale e guardava davanti a sè, come se ogni volta stesse scrutando per la prima volta uno scenario spettacolare, emozionante.
Appena percepiva la vicinanza del cameriere chiedeva a voce alta e con marcato accento “Una granita al limone e un bicchiere d’acqua frizzante’”. Sempre la solita richiesta, urlata tanto da far girare verso di lei i suoi vicini di tavolo, sempre diversi. Appena arrivavano i due bicchieri, compiaciuta urlava il suo grazie. A volte lo pronunciava con un sorriso dolce, che apriva una porta verso il dolore interiore. Verso un mondo in cui non si poteva entrare.
Talvolta il suo tavolino ospitava un uomo baffuto con gilet e occhiali da sole in testa. E insieme discutevano e lui le parlava a bassa voce e lei urlava felice. Ma i loro discorsi, per quanto perfettamente udibili erano sempre incomprensibili e con fili logici intricati.
Un giorno litigarono e lui se ne andò. Lei rimase impassibile a guardare il punto fisso davanti a sè, con gli occhi sgranati e un viso di cera. Dov’era anche il giorno dopo sempre alle cinque, sempre con la stessa comanda: “Una granita al limone e un bicchier d’acqua frizzante”.
E il tempo continuava a ripetersi scandito da giornate sempre uguali. Scrutando sempre quello stesso punto lontano, che non avrebbe mai raggiunto.