Una storia al Village

Quando aveva dodici anni si fece regalare una pianola con cui passava i pomeriggi a riempire di suoni il balconcino che dava sul cortile. Spesso i vicini di casa si fermavano ad ascoltarlo sorridendo. A volte lo incoraggiavano ad insistere in un passaggio che eseguiva ancora con esitazione mentre altre volte lo applaudivano compiaciuti, ascoltando i suoi progressi.

Un giorno il papà a tavola gli chiese che cosa volesse fare da grande, avendo notato che da un po’ di mesi non giocava più con i mattoncini squadrati, come ogni bravo ingegnere dovrebbe fare nella sua infanzia.
“Voglio fare il pianista” rispose entusiasta.
“Ma quello non è un lavoro, è un hobby!” rispose contrariato il padre cercando di troncare sul nascere quelle strane idee.

A diciotto anni decise di andare via di casa e prese una piccola stanza in affitto al Greenwich Village, dove si era fatto conoscere da un paio di locali. La sera si esibiva con chitarra e armonica recitando poesie più che cantando. Brani che aveva scritto lui e che avevano sempre un sapore un po’ amaro.

Scrisse molte canzoni sui lavoratori, sui loro diritti e sulle loro aspirazioni. E su quelli che come lui cercavano di vivere di sogni. 

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