Perché vogliamo essere nomadi digitali?

Spesso quando si citano i social media non si manca di menzionare la FOMO ossia la Fear Of Missing Out: perdere eventi, aggiornamenti o notizie, la cui ignoranza potrebbe farci sentire tagliati fuori da un certo contesto. Si può fare un ulteriore esercizio e calare questa paura in ambiti concreti. Ad esempio io quando apro Linkedin avverto in me la FONBCODN, Fear Of Not Being a Ceo or a Digital Nomad. Scherzo ovviamente ma ammetto che scorrendo quello che dovrebbe essere il social media del business ormai sembra che tutti vogliano insegnarmi a fare digital marketing, lanciare una startup o avere un coach. E tra tutte, diventare nomadi digitali mi sembra comunque la soluzione migliore.

Eppure fino a 20 anni fa, all’alba dei “ruggenti anni 2000” la maggior parte degli abitanti del mondo occidentale sembrava ancora troppa occupata a capire tre cose: come mai Geri avesse lasciato le Spice Girls; intercettare le successive tappe del Festivalbar (vabbè, forse ci pensavano solo in tutta Europa); sognare che effettivamente anche una diva di Hollywood potesse essere “solo una ragazza che sta davanti a un libraio londinese e gli chiede di amarla”.

Festivalbar 98 – cult

C’era una volta il web senza monetizzazione

Anche nei 2000 per fortuna c’erano già i primi smanettoni della rete, sia chiaro (se ne parla anche nel libro Un’Amicizia di Silvia Avallone)! Napster aveva già vissuto la sua ascesa e declino, più veloce di una stablecoin degli anni 2022. C’era quindi chi già usava ingenuamente internet per raccontare la propria giornata su blog senza aspettarsi di monetizzare con un bell’ADV anche il racconto della sua corsa mattutina. Oggi invece sembra che se non lo sai fare non sei nessuno. Ma quand’è che abbiamo deciso che volevamo diventare tutti marketer, CEO o imprenditori di noi stessi? Quand’è soprattutto che abbiamo sviluppato quest’istinto di pensare solo ed esclusivamente a come fare denaro?

Lo chiedo perché ovviamente non ho la risposta ma l’idea di questo post nasce da un bellissimo libro che mi è stato consigliato che è “La Società della Stanchezza” di Byung-Chul Han. Per chi non lo conoscesse, l’autore è un filosofo sudcoreano che insegna all’Università di Berlino e racconta diverse tematiche del mondo di oggi come la cultura dei mass media, il narcisismo e gli eccessivi stimoli. Questo libro (disponibile anche in formato audio su Audible e letto da Vasco Brondi) è un piccolo capolavoro che mette in luce le fragilità della società che abbiamo costruito. Siamo sempre più distratti e tirati, incapaci di andare davvero in profondità nelle cose. Come ad esempio il pittore, Paul Cezanne che con la sua concentrazione vedeva l’odore delle cose. Ne siamo in grado oggi? Eppure l’arte, ha una salvezza contemplativa ed è un peccato non essere in grado di coglierla.

Dal lato opposto c’è quindi la società del lavoro, un mondo che soffoca di cose, in cui il burnout, sempre più frequente, rappresenta l’anima sfinita in una società che chiede prestazione. E molto spesso l’eccessiva manifestazione di lavoro non è nobilitazione ma quasi una nevrosi da cui siamo incapaci di affrancarci. L’era del cartellino dava demarcazione mentre oggi con smartphone e connessioni, il lavoro è sempre, fino ad annullare l’identità del sé. Ecco perché The Great Resignation sta spingendo a rivedere i processi di molte aziende.

Ed ecco anche che diventare nomadi digitali, come spesso si sente, diventa una speranza di salvezza per tanti poveri trentenni e quarantenni di oggi. Una via di fuga “sensata” perché condivisa di poterci affrancare da quello che non funziona. Non per forza la risposta per un lavoro è su Linkedin però.

Lavorare senza CV

Eppure la bellezza è anche nel cercare modelli alternativi di lavoro. O seguire quello che sentiamo più nostro. Ci ho pensato recentemente ascoltando un bel podcast con Vasco Brondi in cui il cantautore ferrarese racconta i suoi esordi e di come si “sentisse” che avrebbe potuto fare solo il cantautore. Per farlo, si è negato qualunque altra chance (there is no plan B) dandosi uno scopo preciso da raggiungere. Con un impegno serio.

E allora forse dovremmo tornare a capire qual è la nostra vocazione. Perché non tutti possiamo voler fare gli imprenditori o i markettari. E se lo facciamo perché pensiamo che siano soldi facili, ci sbagliamo pure. Basti pensare alla concorrenza. A questo punto vale la pena metterci in gioco e fare quello che davvero sognamo.

E accettare anche le difficoltà che ne possono derivare lungo il percorso. Ne parla lo scrittore Paolo Cognetti in un podcast con Frank Lotta di Deejay On The Road. Tanti gli argomenti trattati tra cui la necessità di rallentare, di osservare ma anche la spiegazione del suo non essere sui social media per vincere la compulsività.

Chiediamoci quindi, cosa c’è fuori da Linkedin? Se lavoriamo in un ambiente e poi torniamo a casa e leggiamo saggi sul business, navighiamo su Linkedin, alla fine facciamo sempre una cosa ma in forme diverse: lavorare. Riposo vuol dire staccare la spina. E non fare sempre tutto solo per profitto.

Quindi ben vengano i nomadi digitali, consapevoli e coscienziosi della loro scelta, se questo può portare ad un’evoluzione del mondo del lavoro. E per mostrare che ho imparato bene le regole del marketing, questo post si conclude senza call to action!

PS: nella foto sono io a Tenerife che medito sul “Digital Nomad Dream” delle Canarie ma mi accorgo che l’acqua è troppo fredda per starci tutto l’anno e quindi rivaluto il South Working.

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